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DOCUMENTO POLITICO BOLOGNA PRIDE 2019

introduzione

“Sfondiamo i muri” è la chiamata con cui il Bologna Pride 2019 intende attraversare le strade della città, seguendo l’esempio di Sylvia Rivera, Marsha P. Johnson, Stormé Delarverie che la notte del 28 giugno 1969 sfondarono il muro dell’oppressione. Nell’anno del cinquantesimo anniversario della rivolta di Stonewall non vogliamo fermarci solo al ricordo di quella singola notte per circoscriverla a una rituale celebrazione, ma rintracciare un’intera genealogia di lotte che la precede e la segue.
Da Cafè Compton del 1966 a San Francisco alla protesta di Sanremo dell’aprile 1972 guidata, tra gli altri, da Angelo Pezzana e Mario Mieli, passando per il primo coming out italiano, l’8 marzo del 1972, di Mariasilvia Spolato per cui pagò con il licenziamento e una vita durissima. E come non pensare a Romina Cecconi, che fu confinata solo per aver deciso nel 1962 di adeguare il suo corpo alla sua identità di genere. Sono numerosi i momenti di lotta, ribellione e resistenza che le persone lesbiche, trans, bisessuali, gay hanno portato avanti per rivendicare la propria libertà sessuale, affettiva e di essere.

Oggi, nonostante le libertà formalmente conquistate, viviamo in un paese in cui quotidianamente avvengono aggressioni e discriminazioni fisiche e verbali verso le donne e le soggettività lgbtqi+. Il crescente clima di odio e di violenza, alimentato ormai apertamente da più di un anno anche da esponenti del governo italiano, ci impone l’urgenza di saper dare vita a lotte ampie, trasversali e capillari. Lotte che devono riuscire ad attraversare gli  spazi delle nostre esistenze, dalle case alle strade, dalle periferie al centro, ai luoghi di lavoro, di cura, di formazione, agli spazi di conflitto sociale, di sofferenza: solo in questo modo saremo capaci di ottenere un cambiamento potente e autentico, senza lasciare nessuna persona indietro.

“Sfondiamo i muri”  dell’odio, della violenza, dell’indifferenza, dell’oppressione per continuare a ribellarci, per essere noi, per vivere come siamo e per essere libere di autodeterminarci. L’attacco fisico e politico nei confronti dei corpi delle donne, delle persone lgbtqi+, dei e delle migranti a livello mondiale, ci impone la necessità di saper creare reti e mobilitazioni ampie e trasversali e la capacità di attraversare i conflitti che l’incontro tra diversità porta con sé, evitando che le differenze portino ad un conflitto paralizzato da continue contrapposizioni.

Sfondiamo insieme i muri per raggiungere degli obiettivi importanti e urgenti: l’approvazione di una legge regionale, che promuova percorsi e progetti per contrastare le discriminazioni, la violenza e i crimini d’odio contro le persone lgbtqi+ all’interno dei contesti che abitiamo quotidianamente, che non può più aspettare e soprattutto essere oggetto di ricatti politici; il riconoscimento della necessità di alcuni farmaci per le persone trans che porti a scelte politiche conseguenti perché siano disponibili; l’accoglienza di richiedenti asilo in fuga da guerre e povertà; la libertà per le donne di scegliere di abortire, divorziare e non essere obbligate al ruolo di mogli e madri; combattere la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, perché le donne abbiano la possibilità di uscire dalla violenza e ritrovare la propria autonomia, per non sentire mai più una sentenza dove si dimezza la pena per femminicidio a causa di una “tempesta emotiva e passionale”.
Sfondiamo i muri della precarietà e del decoro, perché Bologna non sia la città dei Daspo ai senza dimora, delle deportazioni coatte e improvvise come quella appena avvenuta all’Hub di via Mattei, degli sfratti e degli sgomberi ai danni di famiglie e s/famiglie. Perché la vita non può e non deve essere sopravvivenza, perché la salute e il benessere devono essere accessibili per tutte le persone.

Con forza e gioia continuiamo il percorso avviato nel 2015 per rendere il Pride interamente autonomo e sempre più partecipato, noi realtà promotrici del Bologna Pride proviamo ad  ampliare la nostra pratica politica ad una rete più vasta, costruita attraverso una chiamata cittadina sempre aperta, come soggetto collettivo e spazio politico di confronto costante. Uno spazio che ogni anno si amplia sul territorio per costruire momenti di scambio, riconoscimento e azione politica comune per rivendicare la libertà di tutte le persone di poter essere e vivere come desiderano.

sfondiamo i muri del silenzio

Le complessità sociali, politiche, economiche della nostra società richiedono l’assunzione di una visione intersezionale che colga i diversi intrecci fra genere, classe, cultura, provenienza per essere in grado di riconoscere le crescenti condizioni di povertà e di marginalità dentro e al di fuori della comunità lgbtqi+.

Condizioni di marginalità e povertà in cui le persone abitano le strade e gli spazi di questa città e che sono sempre più platealmente invisibilizzate e silenziate con strumenti e azioni coercitive, come il Daspo urbano comminato alle persone senza dimora, come lo sfratto di famiglie e s/famiglie e la deportazione coatta di migranti, bersagli di una violenza istituzionalizzata e trasversale che colpisce tutte le persone messe ai margini, comprese le persone lgbtqi+. Per questo dobbiamo sfondare il muro del silenzio e della precarietà, imposti da una società fondata sul capitalismo, il patriarcato e l’eteronormatività.

Dobbiamo pensare a una società in cui essere persone povere, migranti, anziane, brutte e indecorose non impedisca l’accesso ai diritti civili, sociali ed economici. Bisogna trovare nuovi strumenti, insieme, che consentano a tutte le persone ai margini di autodeterminarsi e di autodefinirsi, dalle forme di co-housing al reddito di autodeterminazione, e bisogna farlo ad alta voce.

Chi vive nel privilegio non può arrogarsi il diritto di definire il modo in cui la vita debba essere vissuta, il suo grado di dignità. Dobbiamo amplificare le nostre lotte, dare loro una voce ricca e complessa, in cui le diversità siano legittimate, in cui i bisogni delle singole soggettività si incontrino e si riconoscano. Non possiamo arretrare su questo obiettivo, ma rivendicarlo collettivamente, per andare oltre la cortina di silenzio in cui le persone marginalizzate sono rilegate. E Bologna può farlo, deve farlo, creando alleanze e reti e recuperando quello spirito di rivendicazione e di resistenza che appartiene al suo tessuto sociale.

Solo conoscendoci, incontrandoci ed empatizzando, dando voce alle nostre vite e trovando spazi condivisi, saremo capaci di abbattere il muro del silenzio e della precarietà. Perché la precarietà abita più aspetti – da quello economico a quello sociale, passando per quelli sentimentali e civili – delle esistenze ai margini, non prese in considerazione dal modello dominante bianco, binario, ricco, occidentale e maschile. Non abbiamo bisogno di città asettiche, decorose e silenziate, perché il silenzio è sintomo di pericolo, di morte. Vogliamo invece città vive, vocianti, piene di esistenze diverse che, riconoscendo i bisogni altrui possano lottare assieme e rivendicare una società inclusiva e accogliente.

sfondiamo i muri dell'abilismo

Il sistema in cui viviamo è fondato su un modello abilista dominante che genera discriminazione verso le persone con disabilità (pcd). L’abilismo consiste nelle pratiche e negli atteggiamenti che danno per scontato che i corpi, i sensi, le attitudini cognitive siano abili, dove l’abilità è un concetto circoscritto a canoni di conformità stabilita.

L’abilismo nell’immaginario collettivo ha generato da un lato una visione pietistica della soggettività con disabilità, dall’altro, figure retoriche eroiche che rappresentano esempi di vita che incoraggiano l’abile privilegiato a essere e sentirsi forte. L’abilismo è nel linguaggio che usa parole come handicappatx, ritardatx, mongoloide, spasticx, ecc. come insulto.

Prendiamo spunto dalle definizioni nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità da cui comprendiamo che la disabilità è una condizione in cui un essere umano può nascere, o trovarsi a vivere durante la propria esistenza. E che l’ambiente sociale è responsabile della disabilitazione di una persona. Spetta perciò a tutte le persone interrogarsi, occuparsene e agire perché non si sia artefici di quegli ostacoli che marginalizzano e discriminano le pcd.

La società abilista marginalizza le vite e i corpi delle persone con disabilità, le invisibilizza, non mette in atto strategie per abbattere barriere o evitare di costruirle, nega la libertà di scelta, il diritto all’autodeterminazione e a una vita indipendente da persone adulte. Questa violenza istituzionale agisce rendendo le pcd solo oggetto di politiche assistenzialistiche. Le vite delle pcd non autosufficienti sono concepite in un sistema di welfare che prevede la presa in carico da parte di istituti religiosi, o delle donne della famiglia o la reclusione in istituti, veri luoghi di segregazione. Essere ai margini, nega la possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale e politica ed essere soggettx delle proprie vite.

In questo contesto è ignorato il desiderio sessuale. La libertà di esplorare e esprimere la propria identità di genere e di orientamento sessuale è oppressa. Le persone con disabilità lgbtqi+, dunque, subiscono discriminazioni multiple. Si pensi, per esempio, a una donna lesbica con disabilità la cui soggettività è oppressa da un contesto patriarcale, misogino, lesbofobo, abilista, induttore di auto-invisibilizzazione. L’intersezione di queste oppressioni ci chiama ad allargare le nostre rivendicazioni a quelle delle pcd. Non può esserci battaglia che ignori un aspetto che caratterizza una soggettività per il quale questa è oppressa. Per dirlo con parole di Audre Lodre, attivista nera, lesbica, femminista: “Non esiste una battaglia monotematica, perché non viviamo vite monotematiche”.

Le rivendicazioni del movimento lgbtqi+ e del movimento delle persone con disabilità hanno molti punti in comune perché i corpi delle persone con disabilità sono corpi queer, perché siamo tutte soggettività non conformi che rompono un modello patriarcale e misogino che ci vuole tutte persone abili, belle, bianche, etero, carnivore, produttive e consumiste. Il sistema patriarcale eteronormato e abilista nega sia l’esistenza di famiglie omogenitoriali che la genitorialità delle persone con disabilità. Le figlie e i figli che crescono in famiglie omogenitoriali si ritiene che verranno bullizzati a causa delle scelte dei loro genitori, stessa concezione si ha per le figlie e figli di pcd. Le soggettività lgbtqi+ e disabili (considerate non produttive) condividono anche la difficoltà all’accesso al lavoro, allo sport.

L’autodeterminazione e l’autonomia delle pcd prevede degli spazi che la consentano. Gli ostacoli all’autonomia, che facilitano l’invisibilità, possono essere legati alla fisicità, alle relazioni, alla comunicazione, alla socialità, alla sessualità. L’autonomia della sessualità quando si interseca nella medesima soggettività con identità disabile e lgbtqi+ è maggiormente ostacolata, sia nei contesti religiosi e sociali delle associazioni che si occupano di pcd (poco accoglienti e che non consentono il coming out) sia nei luoghi lgbtqi+. Questi due piani di discriminazione si intersecano per questo è necessario attraversare il tema su un piano politico.

Comprendere e riconoscere quali sono gli aspetti che accomunano i due movimenti ci consentono reciprocamente di intersecarli e condurre assieme le lotte di rivendicazione.

Oggi le destre strumentalizzano le vite delle pcd, facendo leva su sentimenti caritatevoli, e promuovendo una presa in carico da parte delle famiglie. In questi giorni, in sede di conversione del Decreto Legge cosiddetto “sblocca cantieri”, sono stati istituiti due fondi (sottraendo fondi alla scuola e alla salute) finalizzati all’installazione della videosorveglianza nelle scuole d’infanzia e nelle strutture residenziali per disabili e anziani. Questo tipo di politica che concepisce le persone con disabilità come destinate a vivere in istituti, è la riprova di come le politiche di destra si occupano di disabilità solo nelle misure di segregazione. Gli istituti di segregazione e sovradeterminazione delle vite sono luoghi in cui sono violati i diritti umani ed è proprio in questi contesti, oltre che in quelli familiari, che sono agite il maggior numero delle violenze sulle pcd. Il tema della violenza di genere sulle pcd è un tema che ha bisogno di essere nominato e affrontato.

È importante creare consapevolezza ed empowerment nelle donne con disabilità perché la violenza è talmente normalizzata nella vita quotidiana che non viene riconosciuta. Le donne con disabilità subiscono violenze a partire dalla sovradeterminazione delle scelte di vita. Se agite dax caregiver ne complica il riconoscimento e la fuoriuscita. Le donne con disabilità cognitiva non vengono credute, non c’è informazione accessibile (donne sorde, non vedenti ecc.), le strutture che accolgono i percorsi di fuoriuscita dalla violenza hanno iniziato solo da poco a parlarne, ma ancora non sono attive politiche e servizi dedicati. Le pcd lgbtqi+, che subiscono violenze sono ancora più restie a sporgere denuncia poiché, oltre agli ostacoli appena citati, si aggiunge anche la paura del rischio, nel raccontare o sporgere denuncia, di incontrare un interlocutore omolesbobitransfobico.

È necessario condividere l’impegno a cambiare sostenendo le lotte del movimento delle persone con disabilità. Vogliamo decostruire quella dicotomia abile/disabile, abbattere gli stigmi che ancora ci inducono a una percezione negativa o pietistica della disabilità. Ci impegniamo a interrogarci sulle nostre azioni, a costruire e vivere in spazi accessibili fisicamente, adottare linguaggi e strumenti che rendano accessibili i nostri contenuti politici e le informazioni (sui diritti civili, salute, malattie sessualmente trasmissibili, ecc.). Sosteniamo il riconoscimento e l’istituzione della figura dell’operatore e operatrice all’emotività, all’affettività e alla sessualità, promosso dal Ddl 1442 grazie al Comitato LoveGiver.

Bisogna aprire le nostre porte perché tutte le soggettività possano entrare e vivere la comunità lgbtqi+, e una volta dentro abbattere i nostri muri che escludono e discriminano, stigmatizzano le pcd, affinché si possa praticare politica antiabilista assieme chi vive la condizione di disabilità.

Entrambi i movimenti, quello lgbtqi+ da una parte e quello delle pcd dall’altra devono parlarsi, ascoltarsi e farsi carico di istanze comuni, e essere pronti al cambiamento di paradigma. Intersezionare le nostre lotte è il modo perché una soggettività con disabilità lesbica, gay, bisessuale, trans o intersessuale che sia, possa non subire oppressioni multiple e poter rivendicare l’orgoglio lgbtqi+ e disabile della propria identità.

sfondiamo il muro del patriarcato e della violenza di genere

Da circa quattro anni in tutto il mondo, dal Sud America all’India, e anche in Italia, partendo dal movimento nato in Argentina Ni una menos, centinaia di migliaia di donne, femministe, transx, sex workers, soggettività lgbtqi+, sono scese in piazza per dire basta ai femminicidi, alla violenza maschile sulle donne, alla violenza di genere e per affermare la propria autodeterminazione.

La violenza maschile sulle donne non è né un fatto privato né un’emergenza, ma un fenomeno strutturale e trasversale della nostra società, che affonda le sue radici nel sistema patriarcale basato sull’eterosessualità obbligatoria e sull’accumulo di capitali.

La violenza di genere attraversa ogni aspetto dell’esistenza, controlla i corpi e le vite delle donne e di tutte le soggettività non conformi in ogni momento e in ogni luogo: famiglia, lavoro, scuola, strada, ospedali, media e web. Questa violenza sistemica può essere affrontata solo comprendendone la complessità.

Già il 2018, ha visto nella prima metà un’incredibile mobilitazione di milioni di donne dall’America Latina all’Irlanda per rivendicare la piena libertà di decidere sul proprio corpo, lottando fortemente per la legalizzazione dell’aborto, quest’anno purtroppo dobbiamo aggiungere anche gli Stati Uniti, con lo stato dell’Alabama, della Louisiana.

Purtroppo anche quest’anno dobbiamo ricordare con rabbia il costante aumento dell’obiezione di coscienza del personale medico-sanitario, previsto sì dalla legge, che però sta vanificando la libertà di interrompere una gravidanza indesiderata o di ricorrere alla contraccezione d’emergenza. Il risultato è una vera e propria obiezione “di struttura”, che vede coinvolti oltre il 70% dei ginecologi a livello nazionale e almeno il 56% a livello regionale.

È fondamentale garantire l’applicazione della legge 194/78, accertando che il servizio di interruzione volontaria di gravidanza sia assicurato con continuità. Inoltre, sono necessarie campagne educative alla contraccezione e la creazione di un organo di monitoraggio regionale che riguardi gli aborti clandestini, l’obiezione di coscienza, sia complessiva che nelle singole strutture. È necessario continuare a lottare per il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito e allo stesso tempo per il riconoscimento delle scelte non riproduttive, per liberarci dall’obbligo sociale della maternità.

Esiste già una rete cittadina di donne, gruppi e associazioni che collabora sul tema della violenza di genere, attraverso l’occasione dell’incontro per il Pride vorremmo consolidarla ed allargarla. Un tema che ci coinvolge è l’inclusività che per noi non è solo aprire le porte e tenerle aperte. Abbiamo messo in discussione il concetto di inclusione. Secondo Francesca Talozzi, una compagna, una teorica lesbica femminista con disabilità, non ha senso di parlare di inclusione, ma di spazi aperti.

Sul tema della violenza capiamo quali sono le cose costruite, quali le criticità, quali gli obiettivi da raggiungere.

Da un punto di vista politico e di comunicazione della politica, anche per chi non fa un servizio di accoglienza, sarebbe interessante fare un piano di comunicazione, tenere un monitoraggio sul linguaggio nei media, diventare osservatorio. Rilanciamo, sul tema della violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, progetti di campagne di comunicazione e informazione e costruiamo insieme un monitoraggio sui media.

Già esistono, da anni, in città e sul territorio regionale, collaborazioni tra associazioni femministe, Centri antiviolenza e associazioni di donne lesbiche, bisessuali e trans, reti di donne, reti femministe e trans femministe. I temi della collaborazione sono la violenza strutturale, la violenza di genere, la violenza istituzionale, il linguaggio. Vorremmo ampliare e rafforzare le collaborazioni.

Notiamo, su suggestione dei Centri antiviolenza, che il servizio sociale, che lavora da anni con donne che subiscono violenza, fa ancora fatica a rilevare la violenza. È una questione che riguarda la formazione. Ci si rende conto, stando nei tavoli istituzionali creati ad hoc, che c’è un grande problema di formazione. Come proposta operativa è conseguente una formazione obbligatoria degli attori e attrici del segmento che comprende servizi sociale, polizia, operatori e operatrici del pubblico.

Rileviamo che anche con le psicologhe sarebbe necessario fare dei percorsi di formazione rispetto alla violenza.

La violenza istituzionale esiste. Un esempio concreto, se una donna denuncia, le forze dell’ordine di solito chiamano la donna per chiederle se c’è un ripensamento, se ha cambiato idea. Un altro esempio, qui in regione, in Emilia Romagna, a febbraio durante l’audizione sulla legge contro l’omo-lesbo-bi-trans negatività la destra ci ha strumentalizzate dicendo che le donne si picchiano anche tra loro .

E ancora, sempre a Bologna, una sentenza della Corte di assise di appello che ha quasi dimezzato la pena per femminicidio dell’assassino reo confesso di Olga Mattei, riconoscendo come attenuante una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”.

Denunciamo con forza una cultura sociale, politica, giuridica che giustifica la violenza maschile sulle donne e di genere in nome delle passioni e del “troppo amore”, nascondendo le dinamiche di potere e di controllo esercitate nei confronti delle donne.

Senz’altro i giornali spettacolarizzano la violenza, utilizzano un linguaggio che fa rumore, pongono poca attenzione a descrivere come la violenza possa essere riconosciuta. Spesso strumentalizzano eventuali fragilità della donna.

In un sistema che è garantista, ma maschilista, come il nostro, si accetta ancora che il padre possa essere violento.

Il garantismo diminuisce quando ci si occupa dell’autodeterminazione della donna. In questa dimensione politica di destra bisogna continuare a contrastare l’approvazione del Disegno di legge Pillon e affini, che metterà in serio pericolo la libertà reale delle donne di potersi separare, soprattutto dai partner violenti.

Nella comunità lgbtiq+ ci si chiede se introiettiamo la violenza fino ad arrivare a pensare che siccome siamo soggettività lesbiche, bisessuali, gay, trans, queer, allora non ci riguarda. Una suggestione che viene dai gay che hanno cominciato a parlare di violenza è che non riconoscono la violenza perché tra gay non se ne parla. Tra uomini la violenza è giustificata e normalizzata. Tra donne invece è invisibilizzata perché c’è il pregiudizio dell’impossibilità per due donne di menarsi: ma dai, sono donne!

I centri antiviolenza lavorando con le donne si occupano molto più di formazione operativa, a volte tralasciando la parte politica, ma i centri antiviolenza non sono solo o soprattutto un servizio sociale, hanno un ruolo fortemente politico.

Le donne lesbiche e bisessuali nella nostra regione assieme ai centri antiviolenza lavorano già da quasi tre anni sulla violenza di genere e la violenza nei loro rapporti, cercando di portare alla luce le dinamiche che possono esistere anche nelle relazioni tra donne. Questo lavoro prezioso di riconoscimento e di emersione della questione ha portato all’apertura di linee telefoniche di ascolto e sportelli per lesbiche e bisessuali. Dopo un anno e mezzo di attività, è importante continuare nel lavoro di ascolto e accoglienza, così come nella formazione continua. La comunicazione dell’esistenza del servizio è necessaria per far sapere alle donne lesbiche e bisessuali che si trovino in condizioni di difficoltà, discriminazione, violenza lesbofobica familiare o ambientale, o violenza nelle relazioni affettive e di coppia, che c’è una possibilità di ascolto e di accoglienza per loro.

Nelle case rifugio dei centri anti violenza si fa fatica a inserire le donne trans, nella gestione del servizio si cerca di cambiare, di capire come fare, ma c’è un vuoto culturale, una grande lacuna, in alcuni casi non vengono considerate. Evidentemente c’è un disconoscimento sociale. C’è anche molta paura da parte delle donne trans che temono di non essere accettate dai centri anti violenza. Sappiamo che le donne con disabilità portano le stesse istanze, non riuscendo ad accedere perché temono di non essere credute. Serve quindi occuparsi anche della formazione sulle persone trans e sulle donne con disabilità che subiscono violenza per operatrici dei cav o degli sportelli di accoglienza.

Ci si interroga sul tema del corpo, sulla difficoltà dell’autodeterminazione del proprio corpo, sulla coscienza del confine del proprio corpo.

Queste tematiche fondamentali per operare sulla violenza con le donne e le soggettività lgbtqi+ che subiscono violenza, queste parole, questo linguaggio, che ancora non appartengono a tutti i centri antiviolenza, sono ancora lontanissimi dall’uso quotidiano per le forze ordine e i servizi sociali. Anche qui si inserisce il discorso della formazione per scardinare gli schemi mentali predefiniti che hanno generato e continuano a riprodurre la violenza.

Ci si rende conto della enorme differenza che c’è nel fare formazione sulla violenza a soggetti Lgbtiq+, e nel farla ad altri soggetti. La formazione deve essere anche politica e culturale. Le proposte sono ancora molteplici: valutare ciò che può essere fatto con i servizi anche di bassa soglia, attivare servizi di formazione di base partendo dal nostro expertise. Lavorare su stereotipi, sulla loro decostruzione.

sfondiamo i muri
dello stigma dei corpi trans

Per le comunità trans la resistenza dei corpi rimane centrale. Come persone trans veniamo sottoposte e resistiamo a uno standard “cis-normativo”, che ci costringe a parlare di noi stessx attraverso una narrativa dominante che spesso non ci appartiene, non proviene dai nostri movimenti e non rispecchia le nostre complessità. Le retoriche del “nati nel corpo sbagliato” e della sofferenza individuale rispetto ai nostri percorsi vengono spesso universalizzate come le uniche possibili. Inoltre, il potenziale delle persone trans è importante, pertanto abbiamo bisogno di liberarci da un’unica narrazione e di allargarla, per rappresentare la complessità del variegato universo di identità trans e della moltitudine di bisogni attuali delle persone. Espressioni di genere non binarie, o percorsi di transizione diversi da quelli codificati dal sistema istituzionale vengono silenziate e marginalizzate, anche e soprattutto attraverso l’applicazione di protocolli medici obsoleti, non internazionali ma utilizzati solo in Italia, nella quasi totalità dei Centri italiani che si occupano di salute trans. Questi protocolli prevedono la validazione delle nostre vite attraverso Test di Vita Reale, e non prevedono altre identità comprese nello spettro di genere oltre ai percorsi trans medicalizzati in un’ottica binaria.

L’autodeterminazione è il cuore delle nostre lotte. Resistiamo contro l’esclusione sistematica delle nostre esistenze e la marginalizzazione delle nostre esperienze, conoscenze, istanze, competenze e prospettive. Crediamo sia necessario cambiare le strutture di potere, riprenderci i nostri corpi, le nostre identità, le nostre voci, e i nostri saperi. Vogliamo produzioni culturali che non solo includano le persone trans, ma che incarnino una prospettiva trans, fatta di immaginari plurali sui corpi, desideri, esperienze e identità.

Chiediamo una riflessione condivisa, all’interno e al di fuori delle comunità trans, sulla necessità di ripensare insieme gli spazi sociali quali l’accesso e la creazione di servizi sanitari all’avanguardia, funzionali, e capillari su tutto il territorio nazionale, di riconsiderare e migliorare procedure amministrative in un’ottica di liberazione dalla logica opprimente dei tribunali attraverso l’istituzione di una nuova legge, auspicando processi di confronto di comunità, per una reale e condivisa presa di parola trans che si traduca sempre più in una trasformazione di pratiche condivise che sappiano ben rappresentare i bisogni attualmente invisibilizzati delle persone, e che vadano incontro al potenziale delle persone trans anche in termini di tutela del diritto al lavoro e all’accesso a percorsi formativi, universitari, e sportivi.

Nell’attuale contesto socio-politico e culturale, sia a livello nazionale che internazionale, le persone trans risultano maggiormente ad alto rischio in termini di povertà, discriminazione sul lavoro, esclusione sociale. In particolare quelle vulnerabilità sociali legate alle migrazioni, alla razzializzazione, all’anzianità, alla classe, alla disabilità, al sex work. Noi non lottiamo solo come persone trans, lottiamo contro le destre, contro i fascismi, contro i razzismi, contro la sierofobia, l’islamofobia, l’abilismo, contro la stigmatizzazione del sex work, la legittimazione del precariato e dello sfruttamento lavorativo. Esistiamo in quanto persone trans coi nostri corpi plurali, e con questi corpi resistiamo da sempre, ad oggi ed in futuro sempre più nuove generazioni di persone trans continuano e continueranno la lotta nello spirito di Stonewall per coltivare i diritti ottenuti ed ampliarli.

Il nostro diritto ad autodeterminare i nostri corpi e le nostre identità non possono dipendere da una sentenza di tribunale, come tuttora previsto dalla legge 164 del 1982, una legge che parla solo di sesso e non di genere. Il riconoscimento legale delle nostre identità di genere e dei nostri nomi, così come l’accesso alle chirurgie desiderate, non possono dipendere da una procedura giudiziale, bensì da procedure amministrative più snelle. Indispensabile inoltre che la legge stabilisca in modo chiaro e indiscutibile la non obbligatorietà di alcun percorso ormonale e chirurgico come condizione di un riconoscimento legale, tutelando l’autodeterminazione dei minori trans, in primis garantendo loro l’accesso alla transizione anche in caso di dissenso di chi ne detiene la responsabilità genitoriale.

Il diritto delle persone trans ad autodeterminarsi si estrinseca anche nell’integrazione nel mondo del lavoro, nell’accesso ad un reddito ed all’indipendenza economica. Le politiche del lavoro a livello regionale e locale devono posizionarsi chiaramente contro tali discriminazioni, per esempio incentivando programmi di educazione alle differenze e favorendo programmi di formazione professionale accessibili anche alle persone trans. Lo stigma e la discriminazione conducono ancora oggi troppe persone trans in situazioni di precarietà economica ed esistenziale, cui consegue spesso la scelta obbligata della prostituzione.

L’autodeterminazione delle persone trans è di fatto ostacolata dall’impossibilità concreta di esercitare il diritto alla salute che dovrebbe essere garantito dall’articolo 32 della Costituzione Italiana per l’assenza sia di reperibilità dei farmaci che di servizi relativi ai percorsi psicoterapeutici ed endocrinologici omogenei su tutto il territorio nazionale. È urgente che la Regione Emilia-Romagna garantisca l’accesso gratuito a tali servizi presso strutture sanitarie pubbliche in tutte le aree della regione, avendo cura di organizzare ed erogare tali servizi con la collaborazione e il coinvolgimento attivo di tutte quante le associazioni e realtà trans operanti sui territori, in quanto soggetti in grado di recepire insieme al meglio le esigenze dell’utenza. Sempre nell’ottica di rendere tali servizi accessibili a tuttx ed efficienti, è necessario assicurare una specifica formazione al personale medico-sanitario ed in generale a tutti gli operatori che intervengono a vario titolo nei percorsi di transizione, anche al fine di rendere le procedure adattabili alle specifiche esigenze ed ai vissuti individuali, che rimangono sempre unici e mai “standardizzabili”. Diventa fondamentale a questo punto far entrare i corpi trans con le loro complessità nelle aule universitarie, nei libri di medicina, negli studi per i farmaci, creare accessi alternativi alla sanità che non si basino solo su un codice fiscale maschile o femminile che può precludere dall’accedere a visite specialistiche. Serve, oggi più che mai, che si parli di persone trans in ogni ambiente di questa società, che la parola delle persone trans venga presa in considerazione. Rivendichiamo la gratuità “off label” dei farmaci usati per i percorsi ormonali, la cui emergenza di irreperibilità, ormai da mesi nel silenzio delle istituzioni, grava sulla salute di decine di migliaia di persone trans e non solo.

I servizi community-based riguardanti la salute delle persone trans erogati nei vari territori devono essere potenziati e valorizzati, nella consapevolezza della loro fondamentale valenza socio-politica ed insostituibile contributo alla salute e al benessere psico-fisico delle persone trans. Ovviamente tali servizi ed iniziative non possono lasciar spazio ad una deresponsabilizzazione del servizio sanitario nazionale in termini di accessibilità su tutto il territorio nazionale a livello capillare, e devono poter essere una scelta rispetto ad un servizio statale con operatori adeguatamente formati, e non l’unica scelta da inseguire a chilometri di distanza.

Resistiamo insieme.

sfondiamo i muri
dell'unico modello di famiglia

I tentativi reazionari di riproporre un unico modello di famiglia, basata su una rigida differenziazione di ruoli, anacronistica e smentita dalla pratica quotidiana, sono stati fonte di unione e ribellione civile trasversale, a riprova che la società è già organizzata ed accogliente per le famigliE, indipendentemente dalla loro composizione, e refrattaria all’idea di un unico modello.

Vogliamo che si riconoscano le scelte diverse delle persone lgbtqi+, le scelte delle persone singole, le scelte di convivenza, e anche i tentativi di costruzione di piccole comunità e gruppi solidali, che costituiscono delle vere e proprie reti affettive, che vanno oltre i legami di consanguineità e generano nuove forme di vita comune, in cui c’è sostegno morale ed economico, cura e soprattutto libertà. Le relazioni e le famiglie sono lo specchio di una società in continuo mutamento: in particolare quelle che caratterizzano la vita di delle persone lgbtqi+ evidenziano le carenze di un modello basato solamente sulla coppia eterosessuale unita in matrimonio e sulla famiglia cosiddetta “tradizionale”.

Passano gli anni, cambiano i governi, ma per le famiglie omoaffettive nulla cambia: sono ancora i tribunali a decidere chi è famiglia, sono ancora i tribunali ad obbligare o meno i sindaci più restii a trascrivere un certificato di nascita redatto all’estero o a iscrivere sui certificati di nascita italiani i nomi delle mamme intenzionali accanto a quelle biologiche.

Eppure le famiglie omoaffettive esistono e resistono. Esistono nelle sentenze di step-child adoption, nelle quali è sottolineato che la relazione affettiva tra due persone dello stesso sesso, che si riconoscano come parte di un medesimo progetto di vita, costituisce a tutti gli effetti una famiglia, luogo in cui è possibile la crescita di un minore, senza che il mero fattore dell’omoaffettività possa costituire ostacolo formale. Esistono negli atti di trascrizione e di iscrizione all’anagrafe, che oltre al genitore biologico riconoscono il genitore sociale come madre e padre, riconoscendone a pieno titolo l’intenzionalità di essere genitore al di là del mero patrimonio genetico, così come avviene per le coppie eterosessuali che facciano ricorso alle tecniche di procreazione assistita mediante gameti esterni alla coppia.

Vogliamo e chiediamo a gran voce un’Italia unita nel riconoscere a tutte le bambine e a tutti i bambini lo stesso diritto a vivere con tranquillità nella propria famiglia, indipendentemente da chi siano i genitori, indipendentemente da dove vivano, indipendentemente dal fatto di potersi permettere o meno il percorso per l’adozione coparentale, attraverso il riconoscimento dei figli alla nascita, con l’assunzione della piena responsabilità genitoriale da parte di entrambi i genitori, indipendentemente dal loro sesso, dall’orientamento sessuale, dal legame biologico.

E soprattutto chiediamo che questi diritti siano goduti da tutti i bambini e da tutte le bambine italiane, e da tutti i bambini e da tutte le bambine nate in Italia da genitori di altre nazionalità, o ancora arrivati in qualsiasi modo nel nostro paese. Perché i diritti o sono di tutte e tutti, o sono solo dei privilegi.

Vogliamo poi promuovere un’idea di genitorialità che non sia soltanto riconducibile a un modello egemonico ma che raccolga la sfida di decostruirlo e che nomini le forme di relazione a cui affidiamo la nostra riproduzione: biologica, culturale e politica. In questo senso vanno considerate anche le esperienze di coparenting, ignorate attualmente sul piano legislativo, che affrontano il percorso della genitorialità esplorando modelli alternativi che comunque tengono al centro il primario interesse del minore. Riteniamo necessaria una riforma della legge sulle adozioni, che permetta anche alle persone singole e alle coppie dello stesso sesso di poter accedere all’istituto dell’adozione.

Auspichiamo finalmente un dibattito e un confronto serio sul tema della gestazione per altrx, che non può e non deve essere solo mero strumento ideologico e fazioso utilizzato strumentalmente da una parte reazionaria della società ogniqualvolta si venga a parlare di diritti o di temi lgbtqi+.

Inoltre, chiediamo che finalmente sia possibile in Italia l’accesso alla PMA per tutte le donne, single o in coppia, indipendentemente dall’orientamento sessuale.

Ribadiamo che il matrimonio debba essere un’istituzione accessibile a tuttx e che debbano essere solo le persone a scegliere se e come formalizzare il proprio legame di coppia, attraverso istituti giuridici uguali per tutte e tutti, e non attraverso istituti giuridici creati ad hoc per donne e uomini omosessuali, come le unioni civili.

sfondiamo i muri del bullismo e della discriminazione nelle scuole

La scuola è il luogo in cui si cresce come individui e si definisce la propria personalità. Lì, nello spazio in cui dovremmo parlare di educazione alle differenze, di non-conformità, di sessualità e di affettività, molto spesso sopravvivono e vengono costruiti i muri della discriminazione, del bullismo, dell’omobilesbotransofobia. Lì assistiamo invece a un moltiplicarsi di pratiche esclusive e di ostacolo al sereno lavoro delle classi e di chi le educa.

Il clima politico e sociale che si respira in Italia si è imposto come catalizzatore di pratiche di prevaricazione non solo tra pari, in cui si prendono di mira le caratteristiche di genere, identità, orientamento, etnia e cultura non conformi alla norma maggioritaria, ma anche di quelle dirette contro insegnanti e studenti, bersagli di una visione binaria sempre più radicale e alimentata da anni di stereotipi interiorizzati.

Nella scuola la visibilità di sé deve essere la norma, senza che nessuna persona, sia studente o insegnante, debba nascondere la propria sessualità, il proprio orientamento religioso se non perfino la propria provenienza. Rivendichiamo una scuola dove l’obiettivo primario è l’abbattimento di quei muri che impediscono l’autodeterminazione delle singole soggettività, che devono potersi sentire libere, sicure e visibili, e l’accoglienza di tutte le diversità.

Non si può educare al rispetto per prevenire la violenza di genere, senza parlare di sessualità e di affettività a chi abita le scuole, senza mostrarne i meccanismi fondanti e le connessioni con le varie forme di discriminazione e di violenza. A partire dai libri di testo, dove gli stereotipi e le discriminazioni trovano legittimazione, e invece situazioni familiari fuori dalla norma socialmente riconosciuta e ricongiungimenti non trovano spazio, perché i testi scolastici, in cui si stereotipizzano i ruoli, sono questioni centrali su cui intervenire.

Per questo chiediamo a gran voce leggi che tutelino le diversità, come quella attualmente in discussione in regione, che ha l’unico obiettivo di promuovere percorsi di formazione ed educazione alle differenze in tutti i contesti e gli spazi che le persone lgbtqi+ attraversano quotidianamente, incluse le scuole e le aule universitarie. Una legge che non può diventare strumento di ricatti politici e di giochi di potere che hanno conseguenze sulle vite e i corpi delle donne e della comunità lgbtqi+.

In un’epoca di sessualizzazione dei mass media è impellente la necessità di sfondare i muri del silenzio e della vergogna, facendo in modo che certi temi entrino a pieno titolo nelle scuole, dove tutte le persone possano finalmente avere una conoscenza della sessualità, che non è possibile ridurre a semplice prevenzione di malattie o di gravidanze indesiderate, ma che è soprattutto amicizia, sentimenti di sicurezza, di protezione, di rispetto e di empatia.

sfondiamo i muri
dello stigma per le persone hiv+

L’informazione pubblica su HIV, AIDS e salute sessuale è sempre pochissima e sempre meno si investe nella comunicazione su questo, con una riduzione allarmante della consapevolezza delle persone sessualmente attive.


Il silenzio sul tema rimane tra le cause principali dell’aumento della trasmissione e delle diagnosi tardive, anche a Bologna e in Emilia-Romagna: è necessario superare questa impasse e far sì che la diminuzione del numero delle infezioni e l’aumento dei test fatti rientri tra gli obiettivi primari della sanità pubblica. Senza una promozione efficace e diretta del test non riusciremo a diminuire il numero dei contagi.

Bisogna inoltre abbattere lo stigma che colpisce le persone HIV+, perché le attuali terapie, gratuitamente garantite in Italia, consentono di vivere esistenze pari a quelle delle persone sieronegative, rendendole incapaci di trasmettere il virus, quando raggiungono lo stato di viremia non rilevabile. Bisogna rendere noti e finalmente accessibili tutti gli strumenti a disposizione oggi per fare sesso più al sicuro da HIV: il profilattico, la TasP (Terapia come Prevenzione), la PEP (Profilassi Post-Esposizione), la circoncisione e la PreEP (Profilassi Pre-Esposizione), strumento appena reso disponibile in Italia e che consente alle persone sieronegative di prevenire la trasmissione attraverso l’assunzione corretta di un farmaco.

Bologna si distingue nel panorama nazionale per l’offerta di servizi community-based offerti in sussidiarietà riguardanti la salute delle persone lgbtqi+, dal Consultorio Trans del MIT al BLQ Checkpoint di Plus, che lavorano in stretta relazione con il Servizio Sanitario pubblico. Esperienze importanti che si trovano spesso anche a sopperire alle lacune del welfare regionale e di altri territori, chiamate a rispondere a richieste provenienti da tutto il paese anche quando pensate – e finanziate – per rispondere a una domanda locale. Servizi che meritano di essere valorizzati – e potenziati – non nell’ottica di una sussidiarietà, ma in quella di una moltiplicazione e diversificazione dell’offerta.

Chiediamo, inoltre, alla Regione Emilia Romagna e al Ministro dell’Istruzione che venga introdotto un piano di educazione sessuale nelle scuole elementari, medie e superiori, affinché chi le attraversa quotidianamente abbia piena coscienza fin da subito dei rischi delle Infezioni Sessualmente Trasmissibili, prendendo coscienza dei diversi strumenti di prevenzione da esse. L’educazione alla sanità sessuale non deve essere un argomento tabù, ma un argomento affrontato quotidianamente, onde evitare fenomeni di stigmatizzazione che ancora colpiscono le soggettività non conformi.

 

sfondiamo i muri dello sport escludente, razzista e misogino

Lo sport è spesso, nelle sue forme più note e rappresentate, legato a un contesto escludente, discriminatorio.

Solo di recente, lo sport, grazie anche al maggiore riconoscimento del ruolo delle donne, lentamente sta contribuendo alla trasformazione del nostro immaginario: l’educazione corporea, il rispetto della diversità sotto ogni sua forma, sono aspetti fondamentali nella formazione di una soggettività adulta e consapevole.

Lo sport, che aiuta nell’educazione e nella formazione delle persone, contribuisce anche ad alimentare alcune contrapposizioni, ad esempio: collaborazione e rispetto versus competizione e desiderio di primeggiare. L’equilibrio tra le due componenti è molto complesso. Nel corso del tempo si sono definiti veri e propri stereotipi delle/degli sportive/i ai quali si sono sommati elementi legati ad altri stereotipi quali la virilità e il machismo, la femminilità e la debolezza, fornendo un potenziale fondamento a molteplici tipi di discriminazioni, dal razzismo alla misoginia, da quelle basate sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere a quelle basate su “imperfezioni fisiche”.

Non è un caso che l’ambiente sportivo sia uno di quelli dove gli adolescenti vivono un grande disagio. Subiscono episodi di emarginazione e bullismo, subiscono e patiscono forti pressioni per aderire a stereotipi e modelli, al fine di ottenere riconoscimento e integrazione sociale, e imparano a vivere con difficoltà e imbarazzo il rapporto col proprio corpo.

Per questo diventa fondamentale recuperare l’aspetto più includente dello sport, quello che supera le differenze sulla base di valori, regole e intenti condivisi; quello che vede nell’altra persona una risorsa; quello che non vede nemici, ma avversari da rispettare; quello che vede nella competizione uno stimolo per coltivare e far crescere le proprie risorse e potenzialità; quello che riconosce lo sforzo e i risultati, gli impegni di ciascuno per quello che può esprimere e non in confronto a un modello di riferimento; quello che usa il corpo come strumento di esplorazione, conoscenza e integrazione, non come arma escludente.

Lo sport può diventare un piccolo laboratorio dove sperimentare una società basata sulla libera espressione di sé con la consapevolezza dell’accettazione incondizionata e del rispetto da parte delle compagne e dei compagni. Un luogo dove il proprio genere, il proprio orientamento sessuale, la propria religione, la propria provenienza, il proprio corpo e il colore della pelle, non diventino elementi divisivi o fonte di imbarazzo, ma ricchezza per sé stessi e per il gruppo. Attraverso lo sport si possono creare ambienti dove le persone si sentano fiere del proprio corpo e di quello che sono, riuscendo a sviluppare e realizzare il proprio potenziale, prendendo consapevolezza della propria resistenza e della propria forza.

Per questo motivo noi vogliamo proporre a tutti i livelli, nei nostri progetti, durante le nostre interlocuzioni con gli enti pubblici, le scuole, le società sportive, le associazioni sportive, un modello basato sulla visibilità di tutte le soggettività e tutti i corpi nella società, visibilità che deve passare attraverso la comunicazione, l’informazione, la formazione e la partecipazione. Purtroppo nelle società sportive, nelle scuole, nelle palestre e negli sport agonistici di alto livello gli stereotipi, cui prima si faceva cenno, sono ancora molto forti e condizionanti. Il cambiamento quindi è fondamentale per permettere la libera espressione dei corpi, tutti i corpi, anche quelli non conformi e non perfetti secondo categorie, standard e misure imposte.

Il Comitato è composto da: Agedo Bologna, Arcigay Il Cassero, Lesbiche Bologna, Associazione FRAME, Associazione Orlando, Bogasport, Bugs, Famiglie Arcobaleno, Chiesa Metodista di Bologna e Modena, GayLex, Gruppo Trans, I.D.A. Iniziativa Donne AIDS, Il Grande Colibri. IndiePride – Indipendenti contro l’omofobia, Komos – coro gay di Bologna, LILA Bologna, MigraBO LGBT, RED, UAAR Bologna, Uni LGBTQ.

Comitato Organizzatore Bologna Pride
via Don Minzoni 18
40121 Bologna (BO)
comitato@bolognapride.it  ★  segreteria@bolognapride.it